Mindfulness o Religione?


E’ capitato più di una volta di incontrare persone che mi hanno posto la domanda se la Mindfulness fosse “compatibile” con la religione cattolica o addirittura se fosse essa stessa una religione.

La Mindfulness è una pratica di meditazione di consapevolezza, quindi ovviamente non è una religione.
Pur affondando le proprie radici in una pratica buddhista della tradizione Theravada: la pratica di Vipassana; è stata strutturata come Mindfulness sul finire degli anni settanta da Jon Kabat Zinn (professore di biologia molecolare e professore emerito in medicina), dopo averla spogliata dai connotati, che potevano essere presenti, di natura religiosa, morale e spirituale.
In questo modo si è aperta la possibilità di lavorare con pratiche di consapevolezza antichissime (circa 250 A.D.) ma allo stesso tempo adatte al mondo occidentale e scientifico.

La Mindfulness ha come focus l’essere umano, il benessere dell’uomo attraverso il rispetto di tutto ciò che lo circonda. Promuove l’empatia, la compassione verso il prossimo, il rispetto dell’ambiente, degli esseri viventi e ovviamente l’empatia e la compassione verso sé stessi. Niente più.
Tutto questo si realizza  portando un’ attenzione consapevole, non giudicante e quindi accettante al momento presente.

Di conseguenza possiamo sintetizzare affermando che la meditazione di consapevolezza può dialogare con qualsiasi religione che promuova il rispetto dell’essere umano e dell’ambiente che lo ospita.

Quindi per rispondere al quesito iniziale: la Mindfulness è senz’altro “compatibile” con la religione cattolica.

Può addirittura diventarne uno strumento come dimostrano i monaci Benedettini della comunità di Camaldoli che utilizzano la meditazione proprio in tal senso:

Gianni Ratto

Integrazione di mente e corpo: una psicologia umanistica

Quando le vicende della nostra vita non scorrono come vorremmo, quando percepiamo la sofferenza del nostro esistere, desideriamo che le cose cambino: la psicologia ci suggerisce che se NOI cambiassimo anche tutto il resto diventerebbe diverso.

Carl R. Rogers, uno psicologo statunitense che ha vissuto e lavorato in California tra il 1902 e il 1987, sosteneva che ogni guarigione consiste semplicemente nella rimozione degli ostacoli che determinano la nostra sofferenza. Questo maestro, considerato il caposcuola della psicoterapia non direttiva centrata sulla persona, fa senz’altro riferimento a un orientamento filosofico radicato nella fenomenologia prima ancora che a una tecnica psicoterapica.

Il presupposto filosofico si riferisce al fatto, ampiamente dimostrato dalla maggior parte delle scienze dell’uomo, che ogni organismo vivente tende in maniera innata a perseguire un equilibrio omeostatico, ciò che, ad esempio, la medicina definisce come tendenza all’autoguarigione.

Carl Rogers, esplorando le umane vicende, sostiene che ogni essere umano è mosso da una tendenza attualizzante mirata all’autorealizzazione e che proprio nell’autorealizzazione si identificano i nostri desideri di felicità.

Per questa disciplina psicologica il benessere coincide dunque con la realizzazione di sé e con la rimozione degli ostacoli che la impediscono, partendo dal presupposto che “Quel che sono è sufficiente, se solo riesco a esserlo.”

Per questo la terapia centrata sulla persona diventa terapia della consapevolezza e dell’accettazione, il cui scopo e riconoscere chi siamo per consentirci di esserlo.

E’ chiaro che questa filosofia esclude qualunque dualismo tra mente e corpo, tra desiderio e possibilità, tra impulso e raziocinio, e quindi il dualismo che possiamo percepire tra le tensioni che intersecano la nostra esistenza , cioè il conflitto, è definibile come evento sovrastrutturale, interveniente e parassitante.

Ma qual è, dunque, l’origine dei nostri conflitti e del nostro dolore? La psicologia umanistica risponde che la guerra che ci sembra di percepire all’interno del nostro animo altro non è che la dialettica tra ciò che siamo ( e che forse reputiamo insufficiente) e ciò che vorremmo essere per conformarci ad un modello che ci sembra ineludibile. Per questo la psicologia centrata sulla persona giunge a indicare il conflitto come confronto tra un sè reale e un sè ideale, cioè, in definitiva, un falso sé.

Consapevolezza e integrazione, accettazione di sé e autorealizzazione, diventano perciò obiettivi comuni delle terapie e delle tecniche, a mediazione verbale o corporea, che ci mostrano a noi stessi e che ci insegnano a riconoscere, apprezzare e dar voce al nostro sentire, cioè a tutto quello che la mente umana elabora come emozione.

Alba Maria Pulimanti  –  Psicologo Psicoterapeuta  –  Genova